Massimo D’Alema ci era riuscito. Era riuscito a fare la sua parte, in questa tornata elettorale: starsene in silenzio, e rimanere nell’ombra. Quello che invece non è riuscito a fare Silvio Berlusconi, occupando l’etere fino al tracollo del Pdl. D’Alema invece ha stupito persino sé stesso. Silenzio. Caparbio, coriaceo, in fuga da tv, giornali, radio. Fino all'ultimo, verso la vittoria (di chi? Ma questo è un altro discorso). Poi, come da copione degli ultimi vent’anni, ha ripreso puntualmente parola: «Via Berlusconi e faremo la nostra parte per un nuovo governo di fine legislatura» (La Repubblica, 3 giugno 2011).
È straziante anche solo immaginare le facce, di chi nel Pd credeva finalmente di aver varcato la soglia del cambiamento. Nemmeno il tempo di un fuoco che si accende per una speranza ritrovata. Subito spento. È troppo facile, perfino inutile, commentare. Ed anzi si commenta da solo, l’ennesimo invito ai propri avversari politici a rialzarsi, e spartirsi pezzi di governo.
Una risposta c’è già, e viene da lontano. Parole di un anno fa: «Ho una enorme fiducia nei giovani. Lo spazio se lo devono fare da soli. Quando mai qualcuno lo lascia, lo spazio. Il politico di mestiere deve essere cacciato a calci» (La Stampa, 11 giugno 2010). Chi mai avrà osato vomitare simili parole d'odio? Chi avrà profittato del clima d'instabilità per fomentare moti reazionari? Chi avrà voluto far leva sulle pulsioni e gli istinti più violenti del popolo? Chi se non Beppe Grillo, penserà qualcuno. E invece il copyright appartiene a Romano Prodi, intervenuto ben prima che l’alter ego di Berlusconi (quel Massimo D'alema per il quale, secondo Wikileaks, la magistratura sarebbe «una grave minaccia per lo Stato») proferisse verbo. Forse, chissà, sapeva già che la tentazione del lìder maximo avrebbe preso il sopravvento.
Adrian was there
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